venerdì 23 marzo 2012

GRAZIE, PER LA SPLENDIDA RIFLESSIONE SULL'ARTICOLO 18

O Issa (Ovvero: del lavoro e dell’articolo 18)

NECESSARIA PREMESSA: Ho con la politica un rapporto intimo. Come ogni rapporto intimo, da sempre non riesco propriamente a condividerlo. Negli ultimi anni è poi intervenuta una separazione molto netta, perché ho vissuto questo rapporto come una passione cupa, necessaria e invadente, ma senza prospettive di futuro. Sono nata così. La mia generazione è nata così. Nel disincanto totale.
La politica mi è sempre sembrata una necessità ma non sono mai riuscita a fare della stessa un motivo per me di associazione e civiltà. Il che è un controsenso. E credo che – senza voler per forza fare esercizio di modestia sempre e comunque – è proprio quando persone mediamente istruite e preparate come me rinunciano al proprio istinto politico, che il fallimento civile e sociale di un popolo è  vicino.
Nel mio caso c’è anche l’aggravante di avere una laurea in Scienze Politiche, di aver quindi coltivato in silenzio la insana passione, tenendola per me. Alla naturale ritrosia vi ho aggiunto perciò quella amara consapevolezza delle cose, quella conoscenza in più in materia giuridica economica, storica e sociale, che fanno di me  una di quelle insopportabili persone che se parlano di politica sanno quel qualcosina in più che diventa così importante e così fondamentale (per me) da trasformare una amabile e costruttiva conversazione o scambio di idee, in una pedante e petulante lezioncina (fastidiosa anche alle mie orecchie). Un po’ come quelli che studiano psicologia: benemeriti, per carità!,  ma che se gli racconti qualsiasi cosa loro sanno perché e per come e come mai e ti analizzano seduta stante … e magari sono perfetti sconosciuti, dirimpettai di uno scompartimento di treno… allora evito e mi sto zitta oppure riduco gli interventi all’osso, a meno che non ne possa proprio fare a meno…
Ci sono però dei momenti in cui ho delle idee che vanno al di là di tutto questo e quindi ho bisogno di esternarle
E quindi
ARRIVO AL DUNQUE. Riflettevo, come molti di noi, su questa vicenda della riforma del mercato del lavoro. In sé, probabilmente, nel contesto nazionale e internazionale in cui ci troviamo, non è neanche il male assoluto. E forse è materia migliorabile. Su questo non mi azzardo. Non sono una economista e comunque so abbastanza bene che il nostro è un governo conservatore in un parlamento (oltre al resto) con una maggioranza conservatrice ed è questa una realtà che va considerata. Così come va considerato il fatto che quello che stiamo vivendo ora non nasce da un meteorite che ha colpito il nostro paese desertificandolo ma da una storia di almeno trent’anni dove – non sta a me a dirlo – ci siamo dati tutti da fare per distruggere qualsiasi cosa compreso ciò che forse valeva la pena di salvare. E se uso il noi, lo faccio non perché io per esempio abbia una particolare responsabilità. Anzi, in teoria sono una delle vittime di questo stato di cose. Ma sarà che non amo fare la vittima, sarà che appunto ho eluso il mio dovere di partecipazione cittadina, pur avendo gli strumenti (e che strumenti!) per farlo, sarà che se faccio parte di una collettività e ne ho accettato le regole, devo pure ricordare il mio essere fondamentalmente una liberale e come tale so che la libertà, più che un diritto, è un cammino complicato e faticoso individuale e collettivo, che passa innanzitutto per l’assunzione delle proprie responsabilità… sarà per tutto questo ma non mi spaventa il sacrificio. Non lo contesto neanche..
E che siano sacrifici (ma sarebbe anche eticamente bello che questo governo desse reali segnali per estendere questo concetto a tutti e non ai soliti noti…)…
Ma la riflessione vera da fare è sull’art. 18. Che non è, in nessun caso, un problema economico. Che non ha alcuna rilevanza da questo punto di vista. Eppure, far calare la mannaia su di lui è diventata una battaglia ideologica. Una condizione che, evidentemente, era stata data alla formazione di questo governo. Una specie di ossessione da parte dei padroni (li chiamo così per semplificazione).
Allora mi chiedevo perché, visto che da un punto di vista della produttività è il nulla assoluto che questo articolo resti o vada via. E ho pensato, magari sbaglio, ma ho pensato che la crisi non c’entra nulla con tutto questo. Che quando ci hanno detto tempo fa che era caduta la prima Repubblica non era vero. Che la Prima Repubblica, quella fondata sul lavoro, sta cadendo ora, insieme all’art. 18. Ma non è uno slogan politico il mio. E’ una realtà storica. E dirò di più. Quello che cade e che finisce con questa azione, è il NOVECENTO, il nostro Novecento, quello delle battaglie delle masse, quello in cui i popoli hanno preso consapevolezza, hanno studiato, hanno capito … una verità (su cui ritornerò più avanti). E poi, piano piano hanno smesso di capirla. Grazie alla grande mistificazione dell’essere altro. Altro dal popolo.
Con la caduta dell.art.18 finisce il Novecento italiano. E anche la sinistra così come l’avevamo intesa e come ce l’hanno insegnata. Finisce la centralità dell’uomo che lavora, e con questa centralità, tutta l’etica sociale civile e politica che questa comporta. E’ questo che il padrone ha combattuto. Non gli stipendi che calano o si alzano a seconda delle congiunture… Qui ci sta ben altro in gioco. E hanno vinto.
E non è un bel momento. Avrei preferito non esserci e non viverlo questo momento, anche egoisticamente.
D’altra parte vorrei però dire a Lor Signori, che pensano forse di affrontare gli anni 2000 con strumenti da primo Ottocento inglese (…) , che c’è una verità fisica, non romantica, ma fisica, quella verità di cui parlavo prima e che il popolo ha scordato… ma che resta pur sempre verità, e cioè che non esiste niente senza il LAVORO. Chi ha studiato Fisica, sa che tutto è energia, che la materia è energia e che l’energia si misura in Lavoro.
E che l’art. 18 è iscritto nelle leggi della natura. La natura licenzia solo per giusta causa. Chi non produce ma pensa di vivere sul parassita sfruttamento degli altri, è destinato a soccombere. Non lo dico io. Nemmeno Carlo Marx. Lo dicono le leggi della fisica e della Natura.
Chi ancora si siede a tappezzare un divano, a inchiodare una tavola di legno, a impugnare un violino a preparare una pizza a rammendare un calzino a filare la lana a vendere un materasso a costruire un pozzo ad aggiustare un tubo a far partire un motore a progettare una casa a massaggiare la schiena di un malato a misurare il battito del cuore a scrivere un romanzo a cantare una canzone ad accudire un bambino, a badare a un anziano a pulire un lavandino a tirare su un muro…
Un giorno se ne ricorderà
O Issa…

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