Sinistra idiota, ovvero la necessità di un’utopia
La sinistra è idiota, nel senso etimologico del termine. Idios, in greco vuol dire privato, idiota è chi si occupa solo del suo giardino, solo delle sue faccende personali. La sinistra, almeno così mi pare, ha rinunciato al suo internazionalismo a quel “di tutto il mondo”, che se un tempo erano “proletari” e oggi forse semplicemente uomini, era il fondamento dell’essere di sinistra. Oggi dalle piazze si urla contro Marchionne e contro la diminuzione dei diritti dei lavoratori; in campagna elettorale si è parlato di disoccupazione giovanile e precarietà. Battaglie nobilissime, intendiamoci, che però rischiano di essere controproducenti e di aumentare le disuguaglianze se non accompagnate da una visione globale e di lungo periodo. Non si possono affrontare questi temi senza la consapevolezza che siamo parte dei privilegiati del mondo, che se sono alte le disuguaglianze nella nostra società sono enormi quelle tra i livelli di vita media occidentali e quelli dei lavoratori africani e asiatici, che buona parte dei nostri beni di consumo è prodotta in condizioni che riterremmo inaccettabili se fossimo noi a esservi sottoposti. L’idea su cui è nata la sinistra è quella di un mondo che fosse a misura di tutti e di ciascuno, in cui l’uomo non dovesse alienarsi per sopravvivere, non dovesse reprimere il suo Io per adeguarsi ad un sistema di produzione da cui dipende la sua sussistenza.
Oggi qualcuno parla di decrescita, pochi dei milioni che muoiono di fame, di alienazione nessuno. Si fa in massima parte finta che questi problemi non esistano e anche chi ne ha coscienza tendenzialmente non ne parla: sono temi certamente lontani dagli interessi dell’opinione pubblica, temi su cui è difficile costruire slogan efficaci e che quindi hanno un basso ritorno elettorale, ma non per questo hanno una rilevanza minore. Finché non si avrà il coraggio di parlare con forza di queste questioni, finché non si rischierà un’utopia, un’idea di mondo a cui mirare, che se realizzata possa risolvere questi problemi, finché si rinuncerà a fare di tutto ciò un sogno, forse irraggiungibile, ma per cui lottare, l’utopia rimarrà tale e non troverà dove realizzarsi.
Per carità, non voglio “tutto subito” come si diceva una volta. Mi rendo ben conto che ci sono tragiche urgenze da affrontare – i suicidi per motivi economici, l’impossibilità per alcune famiglie di riempire il carrello della spesa – ma non possiamo ridurre l’importante all’urgente. Altrimenti ha vinto chi questa crisi l’ha provocata e ci ha guadagnato, i danni della crisi non sono solo materiali, ma sono anche culturali, la crisi costringe a concentrare l’attenzione solo su ciò che è prossimo, sui problemi del breve periodo. Costringe ad occuparsi della contingenza e a reagire a un numero crescente di stimoli che richiedono una risposta immediata, ma così impedisce al pensiero di sviluppare ogni progettualità di medio e lungo periodo, gli impedisce il tempo per una analisi che porti a una critica profonda e quindi all’elaborazione di modelli alternativi. Si finisce così per cercare una soluzione alla problematicità del presente all’interno di quegli schemi che hanno causato quelle criticità che si sta cercando di risolvere. Si curano i sintomi e non le cause della malattia. Il risultato non può che essere la riproposizione, dopo qualche tempo, della stessa crisi su scala maggiore. Come già insegnava Marx: “Il capitalismo risolve le sue crisi preparandone di peggiori”.
Non si può perciò pensare che l’obbiettivo sia solo quello della salvaguardia dei posti di lavoro e dei diritti, che basti risolvere il problema della precarietà e della disoccupazione nel nostro paese, quando, qualche migliaia di kilometri più a sud, c’è chi muore di fame e, qualche migliaia di kilometri più a est, c’è chi lavora in condizioni disumane per sopravvivere. Ammesso che sia possibile una risoluzione di questi problemi particolari a prescindere da una risoluzione di quelli globali, se ci ritenessimo contenti per aver raggiunto questi obbiettivi, ci dovremo accorgere, tra qualche anno, che siamo diventati noi stessi oppressori invece di liberare l’umanità dal giogo sotto cui è costretta. Questo perché 1) abbiamo diviso, per quanto involontariamente, l’umanità in serie A e serie B per il solo motivo che alcuni uomini erano più vicini a noi e altri erano più lontani e perciò più facilmente ignorabili; 2) Incapaci di portare avanti un pensiero radicalmente alternativo e di metterlo in pratica, abbiamo contribuito a replicare le strutture i cui effetti abbiamo cercato di combattere.
Non so quale utopia, quale ideale sia oggi in grado di coinvolgere, di dare un senso di appartenenza, di muovere idee ed energie e insieme porti in sé la possibilità di un profondo cambiamento delle strutture sociali e di produzione in modo da riaffermare la centralità dell’uomo nella sua totalità e di sottrarlo alla sua subordinazione al profitto. Ne sento però la mancanza. Così sento anche la mancanza della divulgazione di quelle che sono le critiche al capitalismo che si sono pur sviluppate negli anni: mi sembra che il singolo problema, la singola proposta siano considerati solo in se stessi e non all’interno di un quadro di critica sociale di cui dovrebbero essere la coerente applicazione. Davide Pace SEL SEGRATE
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