martedì 4 settembre 2012

CASE DELL'ACQUA? NON LA BEVO.UN INGANNO E QUANTE BUGIE

DI SERENA SILEONI DELL'ISTITUTO BRUNO LEONI Sono varie le fonti da cui, quotidianamente, attingiamo all’acqua che beviamo. In base alle nostre scelte, ai nostri gusti, alle nostre priorità, e anche alle nostre esigenze di salute – insomma, in totale libertà – possiamo scegliere di bere l’acqua così come sgorga dal rubinetto, di berla dopo che viene purificata dai filtri, di berla imbottigliata in vetro, o in plastica, etc. Ultimamente, si sta diffondendo un altro modo di rifornirsi dell’acqua da bere: le case dell’acqua, una sorta di discendenti delle fontane che erogano a getto l’acqua, consentendo anche l’erogazione separata di acqua naturale o frizzante. Si tratta, banalmente, di impianti per la distribuzione dell’acqua prelevata dall’acquedotto, pronta per essere raccolta dall’utente. I vantaggi, oltre a quelli di una maggiore possibilità di scelta da parte delle persone in merito alla fonte da cui attingere, sarebbero anche ambientali, dato l’abbattimento del consumo di plastica e del trasporto su ruote delle bottiglie. L’idea, dunque, di un’acqua “alla spina” è senz’altro positiva, sotto ogni punto di vista. Si tratta di un’offerta nuova, che si aggiunge alle precedenti e che reca con sé punti di forza che possono cambiare le scelte individuali. Purché tali scelte siano libere e incondizionate, ovviamente. Il punto, dunque, è capire se esse lo siano davvero, o se ancora una volta il regolatore pubblico non stia cercando, a prescindere dalle finalità più o meno nobili, di veicolare il consumo di un bene. In Lombardia, ad esempio, la regione ha stanziato 800.000 euro per la realizzazione di questo tipo di distributori di acqua al fine di stimolare le persone all’uso dell’acqua che scorre negli acquedotti (2 italiani su 3 sembrano non fidarsene), e di diminuire l’uso della plastica per l’imbottigliamento e del trasporto su ruote delle bottiglie. In questa regione, le case dell’acqua sono gestite in particolare da quattro società pubbliche – Cap Holding, Ianomi, Tam e Tasm – che operano nel settore della depurazione delle acque e gestiscono le reti di collettamento dei comuni in provincia di Milano, Lodi e Pavia. Da quando inaugurarono, nell’aprile del 1998, la prima casa dell’acqua ad Abbiategrasso, hanno aperto 244 su 411 in tutta Italia (dati aggiornati al 31 dicembre 2011), offrendo un nuovo modo di approvvigionamento dell’acqua potabile. Il 21 dicembre 2010 veniva approvato in Consiglio regionale, in occasione della discussione sul bilancio di previsione della Lombardia per il 2011, l’ordine del giorno n. 314, che invitava la Giunta regionale a prevedere un contributo per la costruzione e gestione di nuovi punti acqua. Qualche mese dopo, l’ordine del giorno diventava un emendamento alla legge di assestamento per il 2011, pubblicata ad agosto. Con delibera n. IX/2553 del 24 novembre 2011, la giunta regionale ha quindi assegnato alle province lombarde e al comune di Milano il contributo a fondo perduto di 800.000 euro per la realizzazione di questi nuovi distributori di acqua potabile, col proposito di sensibilizzare le persone – come si legge nel comunicato del primo firmatario dell’emendamento alla legge di assestamento, Fabrizio Santantonio – a bere l’acqua dell’acquedotto e non quella in bottiglia, che costerebbe di più sia alle tasche dei cittadini che all’ambiente. La ratio, quindi, sarebbe quella di stimolare le persone all’uso dell’acqua che scorre negli acquedotti (2 italiani su 3 sembrano non fidarsene), e di diminuire l’uso della plastica per l’imbottigliamento e del trasporto su ruote delle bottiglie. Si direbbe che siano tutte finalità condivisibili e ragionevoli, ma vi sono almeno tre questioni che gettano qualche ombra. L’acqua è un bene indispensabile, si sa. Per questo, il minimo comune di cui tutto possiamo usufruire è quella che sgorga dai rubinetti, potabile anche se – come diremo tra poco – non equivalente all’acqua minerale imbottigliata. Mutuando il linguaggio costituzionalistico, potremmo dire che il livello minimo essenziale relativo al “diritto all’acqua” viene soddisfatto già con le garanzie relative alla gestione del servizio idrico integrato (a prescindere, invero, dalla natura del soggetto gestore), tra cui rientrano la captazione, adduzione e distribuzione di acqua ad usi civili. Le case dell’acqua non possono quindi ritenersi un servizio pubblico essenziale o comunque un servizio di interesse generale, atteso che la medesima acqua che da esse viene somministrata finisce già sulle case di tutti i residenti lombardi, attraverso i rubinetti della cucina. È quindi qualcosa di diverso rispetto al servizio minimo essenziale di fornitura di acqua pulita, e perciò non abbisogna di un intervento pubblico che lo agevoli o lo finanzi, essendo, appunto, un servizio aggiuntivo rispetto al minimo che è necessario garantire. Atteso dunque che i cittadini godono già della possibilità di bere l’acqua che scorre negli acquedotti, qualsiasi altra modalità di erogazione di acqua buona da bere rientra in un’attività di impresa che né gli enti locali né la regione hanno motivo di sostenere o frenare. Ogni vantaggio, economico – come in questo caso – o di altro tipo fornito a una modalità di distribuzione dell’acqua piuttosto che a un’altra, ulteriore al servizio idrico il quale solo è servizio di interesse generale, si tramuta in un ingiustificato sostegno a un settore di mercato (in questo caso, l’acqua “alla spina”) piuttosto che a un altro (ad esempio, l’acqua in bottiglia). Con lo stesso stupore con cui, dunque, dovremmo accogliere una eventuale notizia di un finanziamento alle imprese che recapitano l’acqua a domicilio o che la distribuiscono nei supermercati, dovremmo altresì accogliere lo stanziamento di soldi pubblici per finanziare le case dell’acqua. Sia nell’uno che nell’altro caso si tratta di attività commerciali che si aggiungono, lo si ripete, alla disponibilità dell’acqua dal rubinetto. Che le persone possano, nel tempo, mutare le loro abitudini e approvvigionarsi alle nuove fontane pubbliche, piuttosto che comprare le casse dell’acqua, è dunque il frutto di una loro scelta come consumatori, che nulla ha a che vedere con la garanzia, comunque esistente, che l’acqua scorra, pulita e controllata, dai rubinetti di casa. Se questa nuova modalità di raccolta dell’acqua per uso personale dovesse funzionare, spetterà alla libera intrapresa economica sfruttarla come una modalità alternativa di vendita dell’acqua sotto forma di contratto di somministrazione, rispetto alla vendita per unità di acqua imbottigliata, e spetterà ad ognuno di noi scegliere quale acqua preferire, considerato, peraltro, la non equivalenza dell’acqua minerale rispetto a quella dell’acquedotto. E sulla non equivalenza riposano gli altri due motivi di perplessità circa lo stanziamento di soldi pubblici per favorire le case dell’acqua. Infatti, non solo il finanziamento sarebbe distorsivo della libertà di concorrenza per quanto finora detto (ovvero poiché, una volta garantito il servizio idrico, ogni ulteriore attività di raccolta e erogazione dell’acqua è un’offerta di un bene che ognuno di noi potrà richiedere gli venga fornito in maniera diversa in base alle proprie scelte, senza che sia la regione a dirci quale acqua dobbiamo bere); esso sarebbe anche ingannevole nel farci credere che l’acqua dell’acquedotto è uguale a quella minerale. Per legge, infatti, le acque minerali sono quelle che, “avendo origine da una falda o giacimento sotterraneo, provengono da una o più sorgenti naturali o perforate e che hanno caratteristiche igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute”, e che dunque si distinguono dalle ordinarie acque potabili “per la purezza originaria e […] conservazione, per il tenore in minerali, oligoelementi o altri costituenti ed, eventualmente, per taluni […] effetti” (d.lgs. 176/2011, art. 2). Se dunque gli italiani preferiscono bere acqua minerale in bottiglia, piuttosto che acqua potabile dal rubinetto, tale scelta può essere dovuta non solo all’abitudine, quanto pure alla consapevolezza della differenza tra i due tipi di acque e a una precisa selezione dell’acqua minerale migliore per il proprio organismo. Selezione che può provenire sia dal fatto che un determinato tipo di acqua minerale può essere di aiuto nel rispondere alle esigenze terapeutiche della persona, sia, più banalmente ma in modo altrettanto rilevante, dal fatto che ciascuno è libero, esigenze terapeutiche a parte, di assecondare le proprie scelte dietetiche, dopo aver ricevuto una corretta informazione sul fatto che le acque minerali sono appunto diverse tra loro e diverse dall’acqua potabile. Su tale diversità insiste peraltro lo stesso ministero della salute: il decreto del 7 febbraio 2012, n. 25, recante Disposizioni tecniche concernenti apparecchiature finalizzate al trattamento dell’acqua destinata al consumo umano, si basa proprio sulla distinzione tra le acque filtrate da apparecchiature come caraffe o filtri collegati alla rete acquedottistica e acque minerali, tanto che è vietato pubblicizzare e vendere tali apparecchiature come “depuratori d’acqua” (art. 7, comma 2), mentre bisogna scrivere, nelle istruzioni, “apparecchiature per il trattamento di acque potabili” (art. 5, comma 3, lett. b)). Pertanto, un messaggio come quello che trapela dallo stanziamento di fondi per la costruzione e gestione di case dell’acqua, secondo cui le famiglie possono diminuire il costo dell’acqua da bere imparando a usare quella dell’acquedotto piuttosto che quella in bottiglia è un messaggio ingannevole o almeno fuorviante, perché mette in concorrenza due prodotti che non sono equivalenti, facendo credere impropriamente all’utente di poter risparmiare nell’approvvigionamento di uno stesso bene, rispetto al quale cambierebbe solo la modalità di erogazione (in bottiglia o “alla spina”). A ben vedere, e questa è la terza perplessità, tale messaggio non è solo ingannevole, ma persino discriminatorio nei confronti di quanti, pur essendo disposti a bere l’acqua dell’acquedotto, per motivi di salute devono bere particolari acque minerali, o è preferibile che lo facciano. Parafrasando la nota massima, nessuna acqua è gratis: è evidente che i soldi per finanziare le case dell’acqua provengono, come ogni spesa pubblica, dalle tasse di tutti; ma verrebbero utilizzati per un servizio fruibile solo da una determinata categoria di utenti, di coloro per i quali, a prescindere dalle condizioni economiche, è indifferente, dal punto di vista della salute, bere semplice acqua potabile o acqua minerale. Ricapitolando, un progetto regionale di finanziamento delle case dell’acqua con soldi pubblici è: 1. ingiustificato, poiché interviene in quella che potrebbe essere una normale attività di impresa, ripagabile dai profitti come avviene ora con la vendita di acqua minerale (e anche, volendo, dal pagamento per servizi aggiuntivi, come la distribuzione di latte fresco o di eco-detersivi, secondo quanto si è suggerito al Festival dell’acqua); 2. ingannevole nel far ritenere agli utenti di poter risparmiare il costo dell’acqua in bottiglia, come se il prodotto fosse equivalente, dal momento che quella che preleverebbero alla “fonte” non deve avere le caratteristiche dell’acqua minerale; 3. Discriminatorio nei confronti di coloro che comprano acqua in bottiglia per finalità terapeutiche, e che si troverebbero nella condizione di partecipare, da contribuenti, alle spese di costruzione e gestione delle case dell’acqua senza poterne usufruire, a prescindere da quelle condizioni economiche che solo dovrebbero giustificare ogni forma di solidarietà contributiva.

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